SorrisoDiverso

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Sara e Michele sono seduti sul letto della loro camera. Lui le dà le spalle, lei tace e mantiene basso lo sguardo, attendendo in posa rigida che qualcuno dia inizio a una conversazione, mentre i pensieri che cova ormai da diverso tempo la tormentano. Il silenzio copre e sottolinea la distanza tra i due, reale, perché non si toccano ed emotiva, perché nessuno dei due riesce ad aprire bocca. Michele si alza per andare in bagno e la lascia sola.

A partire da questa scena, che attraverso ogni suo elemento parla di una frattura nella coppia, lo spettatore raccoglie sempre più informazioni sulla vita quotidiana di Michele e Sara. Lui non riesce a spiegare a Sara né tantomeno a sé stesso il calo della libido da cui è affatto e la caduta della barba, che viene via con l’acqua quando si sciacqua il viso. Lei, d’altra parte, non riesce a comprendere la natura di questa distanza, la perdita dell’intimità sessuale e della comunicazione con il suo compagno e comincia, perciò, a temere che siano tutti campanelli d’allarme. Forse la loro storia è al tramonto.

L’indomani, finalmente, Sara prova a parlare apertamente delle sue paure, Michele nega che quanto gli accade sia correlato a un cambio di sentimenti. Lei, a quel punto, insiste perché lui faccia una visita per venire a capo del suo problema apparentemente inspiegabile.

Da quel momento in poi Michele scava per comprendere da cosa sia affetto; confessa alla dottoressa di non provare nessun impulso sessuale e inizia a fare alcune analisi su consiglio del medico.

La verità emerge alla fine e si rivela quella più inaspettata. A intaccare la quotidianità della coppia protagonista del cortometraggio, infatti, è un elemento altrettanto inserito nella vita di tutti i giorni, così comune da essere invisibile e, d’un tratto, abbastanza importante da mettere in pericolo la salute non soltanto di Michele, ma di moltissime altre persone nel mondo.

I due protagonisti riescono a portare nella dimensione del quotidiano tutte le difficili implicazioni che il dramma al centro del corto ha sulla sfera intima e domestica dell’individuo – l’iniziale impossibilità di comunicare, lo smarrimento di fronte all’incomprensibile ribellione del proprio stesso corpo, le reazioni di una coppia che si confronta con la malattia. Il contrasto intenso di luci e ombre che di quando in quando sottolinea il senso di alienità e di isolamento di Michele evolve nella luce calda della scena finale – una gentile tregua dal buio.

 

 

 

 

 

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Nina è il racconto della vendetta di una donna contro l’uomo che, dieci anni prima, ha rovinato la sua vita incastrando il padre, Roberto Lombardo, uno dei due fondatori dello Stabilimento di Sviluppo e Stampa di Pellicola Loma.

L’intera narrazione si compone di tessere relative ad un prima e un adesso che, alternandosi ordinatamente, ci consentono di dare senso all’oggi attraverso il rapido intrecciarsi e ricostruirsi delle vicende del passato.

Il cortometraggio si apre in una zona industrializzata nell’Italia degli anni ’30, all’interno di un bordello in cui vediamo la protagonista apparire sola, spaesata ma nell’atto di mettere in scena il piano che la porterà, non solo al conseguimento del proprio obbiettivo, ma soprattutto al raggiungimento della propria evoluzione personale e psicologica come persona e come donna. Se la scena ha inizio in un luogo non storico e non identitario, seguendo l’evoluzione del personaggio, il tempo della storia si fa subito estremamente connotativo: il buio della notte, dell’oscurantismo della dittatura fascista, della menzogna e della vendetta. L’oscurità, sottolineata dall’atmosfera noir del corto, suggerisce l’impossibilità di vedere e comprendere con razionalità e dunque la possibilità dell’errore. Al contrario, la bellezza e luminosità della protagonista evoca l’immagine di un corpo e di un animo governati dalla luce della razionalità.

Si può senz’altro affermare, per concludere, che il cortometraggio, per niente banale, riesce nell’intento di far riflettere; sospende e decostruisce la logica e il senso comune che vogliono la donna fragile e insicura; lasciando altresì lo spettatore a interrogarsi sul senso della giustizia e sul limite entro il quale è giusto spingersi per ottenerla.

 

 

 

 

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Questo cortometraggio racconta la storia di Pinocchio, dipingendola innanzi agli occhi dello spettatore con pennellate essenziali, delicate. Il luogo in cui la storia viene inscenata è uno spazio ampio, sgombro e con l’intonaco scrostato alle pareti. Un posto che evoca e amplifica il senso di abbandono in continua contrapposizione con la presenza umana.

Questo contrasto riflette la natura stessa del personaggio di Pinocchio, a metà strada tra un essere vivente e un oggetto inanimato. Il percorso che compie deciderà quale di queste due nature sarà prevalente sull’altra, ma in fondo, è proprio grazie ai suoi errori e alle sue difficoltà che Pinocchio potrà affermare, alla fine, di essere umano.

La vita si fa strada negli spazi vuoti, li ingombra e afferma sé stessa a viva voce. Pinocchio, infatti, è interpretato da molti attori, per la precisione dagli ospiti del Centro di Riabilitazione Luce Sul Mare. Le scene corali che rappresentano le peripezie di Pinocchio, lo fanno mettendo in scena delle vere e proprie coreografie: movimenti che raccontano una storia ma che creano soprattutto una sinergia, un contatto tra le persone che si trovano sulla scena.

Le disavventure di Pinocchio ci trascinano sino alla fine di questo cortometraggio che senza una battuta, senza una parola, ma con i gesti, i volti degli attori e la musica, raccontano un’umanità che afferma di esistere e che chiede solo di essere guardata.

 

 

 

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