Francesco ripete ogni giorno i passi della sua routine mattutina: acquista il giornale, passeggia, si dirige al parco, si siede sulla stessa panchina e da lì osserva le persone, la vita che si svolge attorno a lui.
Il tempo della sua giornata è scomposto in istanti che sono cloni di quelli precedenti, che li riecheggiano. Meccanismo, questo, che sembra replicarsi, improvvisamente, sulle scene a cui assiste al parco, mentre osserva gli altri: il ragazzo in bicicletta che pedala e svolta l’angolo, per esempio, introduce un ricordo. Francesco torna indietro, ai tempi della sua infanzia, e si rivede piccolo, quando si dirigeva a casa in bici.
Lo stesso accade quando osserva il bambino che gioca a pallone, poco distante, che, guarda caso, si chiama come lui. In fondo non sembra affatto diverso dal ragazzino che era stato lui stesso, quando giocava a calcio da solo, sotto casa sua.
Le storie degli altri, all’improvviso, sembrano sovrapporsi ai frammenti della sua, quasi per effetto di una sorta di furto. Una strana angoscia si insinua nel protagonista, di fronte a queste coincidenze, alla geminazione incontrollata del suo tempo e della sua vita, persino del suo nome.
Il finale resta aperto alle interpretazioni: c’è dell’altro, ma questo altro avviene al di fuori dell’inquadratura.
Il gioco di sovrapposizioni scompone l’unità del racconto e lo ramifica, lo congiunge ad altre storie che si perdono altrove, lì dove lo schermo finisce.