RECENSIONE: AGNES di Raffaele Grasso
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“Agnes” è il nome del personaggio protagonista che da solo anima i sei minuti della pellicola. L’isolamento di questo nome nel titolo lapidario del cortometraggio, riflette quello della donna, la sola figura ad abitare la scena altrimenti vuota della sua casa.
La macchina da presa penetra nella solitudine di Agnes con una naturalezza tale, che allo spettatore pare quasi di spiare la silenziosa giornata di una donna assorbita da attività apparentemente ordinarie.
Madre single di Giuseppe, mentre si muove in casa sua, Agnes viene costantemente inseguita, in qualche modo, dal figlio assente, ma che le ricorda di sé attraverso i disegni sparsi per la casa e le fotografie, come a riprodurre nello spettatore la consapevolezza costante di quell’esistenza a cui Agnes deve dar conto.
Nel silenzio della scena germoglia l’empatia dello spettatore verso lo sconforto di Agnes che gradualmente assume i connotati della disperazione: le difficoltà a cui deve far fronte appaiono insostenibili.
Il tema del sacrificio emerge tutt’a un tratto, in una declinazione amara che non lascia spazio agli eroi, ma all’essere umano e al suo dolore: il sacrificio non è tale perché nobilita chi lo compie, ma perché lo addolora.