di Andrea Valente
Aveva già detto che non ci sarebbe stato, Roman Polanski. 86 anni, francese con origini polacche, l’anziano cineasta ha passato abbastanza guai in vita sua per non riconoscere una situazione pericolosa. Infatti è successo, è successo tutto quanto, così come temeva chi aveva saputo delle 12 nomination del suo J’accuse (L’ufficiale e la spia, nella traduzione italiana) ai César, il premio più importante del cinema d’Oltralpe. “Gli Oscar francesi”, come li chiama qualcuno.
Guardate i video della premiazione, la scena è imbarazzante. Quando il regista franco-polacco viene annunciato vincitore per la miglior regia il teatro non si riempie di applausi; si sente un timido ciaccolare, qualche battimano educato ma cauto, e poco più. Il premio sparisce dietro le quinte perché nemmeno un rappresentante del cast è presente per ritirarlo. Le telecamere riprendono la sala e il video fa il paio con l’audio: in pochissimi celebrano la vittoria. La maggior parte degli astanti è immobile, e quando le immagini pescano qualche volto lo trovano teso e contratto, lontano sia dalla gioia della vittoria che dall’amarezza della sconfitta. C’è un’altra preoccupazione che aleggia tra il pubblico.
Poi quel vetro così sottile di educazione e apparenza si incrina: una giovane donna in abito da sera si alza. Le paillette del suo vestito scintillano ironiche mentre marcia verso l’uscita e prima mormora, poi proferisce, e alla fine scandisce due parole: “La honte”, “vergogna”. Dura pochissimo prima che sparisca nella galleria, tra gli uomini della sicurezza che cercano di far finta di nulla; ma è un’immagine che si incide nello sguardo, paradossalmente più dell’annuncio del vincitore.
Alcune decine di persone in sala, donne e uomini, si alzano e la seguono in silenzio. Il vetro va in pezzi, ma è proprio allora che i frammenti acquisiscono un senso: l’assenza di regista e cast dalla serata, le polemiche precedenti la premiazione, le centinaia di persone raccolte fuori dal teatro per protestare contro le nomination di Polanski e del suo film.
Gli occhi del mondo sono fissi sul cinema francese, ma questa volta non per ciò che è proiettato sul grande schermo.
Polanski: i premi nel teatro, le accuse fuori
Lei è Adéle Haenel, un’attrice promettente piuttosto nota in patria, all’estero un po’ meno. Con il suo gesto si è consacrata come volto del movimento #metoo francese. L’origine della sua rabbia è l’elefante nella stanza, anzi in sala: le odiose vicende che vedono coinvolto l’anziano maestro del cinema francese.
Nel 1977 Roman Polanski, allora residente negli Stati Uniti, approfittò sessualmente della tredicenne Samantha Geimer. La certezza dell’affermazione deriva dal passaggio in giudicato della faccenda: un tribunale americano ha accertato che il fatto è avvenuto, e lo stesso regista ha patteggiato con la vittima dichiarandosi colpevole. Questa è l’unica ragione per cui, in termini strettamente tecnici, non si parla (più) di violenza. Quando fu chiaro che il giudice gli avrebbe imposto il carcere, il cineasta fuggì all’estero – dov’è rimasto fino a oggi, protetto dall’estradizione dalla cittadinanza francese.
Negli anni seguenti su Polanski sono piovute accuse da parte di altre cinque donne. Quella che ha avuto l’eco maggiore proveniva dalla fotografa Valentine Monnier, che ha affermato di essere stata picchiata e violentata dal regista nel 1975: un reato prescritto, come altri dello stesso tipo, che lui ha negato tramite il suo legale. “Mi vogliono trasformare in un mostro. Finora non ho parlato, ma sono la sola persona che può farlo e lo farò al più presto”, ha dichiarato Polanski in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 19 novembre 2019.
Vicende ancora in corso di definizione, insomma, ma ce n’è abbastanza per definirlo un personaggio quantomeno controverso. Uno che non sorprende provochi molte divisioni, né che ne provochi di questo tipo.
Bene, lo confessiamo: il film di Polanski l’abbiamo premiato anche noi. È successo l’anno scorso, a settembre, in occasione della 76esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (ecco le prove). Prima che qualcuno si alzi ed esca metaforicamente dal teatro, però, vorremmo raccontarvi perché.
I grandi della cultura e i loro inquietanti chiaroscuri
È difficile che i giganti della cultura e del pensiero abbiano un passato privo di ombre. Anzi: gli esempi del contrario sono ovunque, spesso convenientemente nascosti o edulcorati per proporre un’immagine anodina del mito di turno. La genialità spesso non sente o non sopporta i vincoli dell’etica e della morale – nel bene e nel male.
Basti pensare, per esempio, alla base della cultura occidentale: il pensiero filosofico greco, che ha influenzato tutte le strutture sociali e politiche successive. I grandi pensatori dell’antichità erano accomunati da una caratteristica ricorrente, con pochissime eccezioni: una profonda, stratificata, sistematica misoginia. Raccolta, tra l’altro, dalla letteratura classica, che l’ha cristallizzata in espressioni terrificanti.
Non c’è bisogno di scavare nel tempo per trovare altri casi esemplificativi: tra tutti Charles Bukowski, campione di quel realismo pulp che così tanto successo riscuote presso i lettori. Non è affatto improbabile che abbiate almeno un suo libro in scaffale, o che vi siate imbattuti in una sua citazione su un social network, ambiente particolarmente fertile per certe sue sferzate stilistiche. Ottimo: Bukowski era alcolizzato e sessista; questo per tacere delle sue più che dubbie qualità umane. Del resto non è una grande scoperta, basta leggere poche pagine per capirlo. Personaggio reprensibile, quindi; però che taglio narrativo, che presa fulminante sul reale. Peccato.
Sembrava un agnellino, John Lennon, e per certi versi lo era: un uomo fragile e pieno di contraddizioni – come tanti – che evoca immagini di vesti bianche, capelli lunghi e pacatezza interiore. Eppure aveva un nutrito passato di violenze domestiche, percosse e abuso di droghe, testimoniato dall’ex moglie e dai figli, accennato da Yoko Ono e ammesso da lui stesso in più di un’intervista. Life in peace era un anelito, un’ispirazione, non una regola personale; eppure che musica, che influenza sulla cultura contemporanea. Peccato, di nuovo.
Altro premio, altra polemica: Peter Handke e il Nobel per la letteratura del 2019. Un’assegnazione che ha provocato non pochi mal di pancia tra chi sosteneva che l’autore austriaco ne fosse indegno, in quanto sostenitore della pulizia etnica serba del 1995. Un caso ampiamente sopito, con il premiato che non ha speso una parola per rispondere alle polemiche.
Per l’ultimo esempio torniamo in Francia. Era appena iniziato il 2018 quando Gallimard, uno dei più grandi editori francesi, ha dichiarato di rinunciare al progetto di pubblicazione dei pamphlet di Louis-Ferdinand Céline in seguito alle accorate proteste di lettori e associazioni antirazziste. Céline, l’autore di Viaggio al termine della notte e di Morte a credito, è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento: si esprimeva in un argot intessuto in petite musique dal succedersi di puntini di sospensione, avverbi, termini alti e bassissimi a distanza ravvicinata, in un fluire narrativo proteiforme dall’impressionante capacità evocativa. Purtroppo, però, Céline era convintamente razzista e filonazista: testimoni ne erano proprio i suoi pamphlet, intrisi di un feroce antisemitismo. Di qui le proteste e la censura. Gli intellos francesi si sono divisi tra chi ha plaudito alla decisione e chi ha levato gli scudi in favore dell’orco letterario, rivendicando il diritto dei lettori a conoscerne il pensiero nella forma più compiuta. Lo stesso premier francese, il letterato Édouard Philippe, ha commentato: “Ci sono eccellenti ragioni per detestare l'uomo, ma non si può ignorare lo scrittore”.
J’accuse: guardare il film, non il regista
Diceva Jorge Luis Borges* che, al momento di analizzare un’opera, un esercizio assai utile è quello di immaginare che l’abbia realizzata un autore diverso. Magari ignoto, magari noto e contraddistinto da una certa linea di pensiero: l’interpretazione cambia o rimane la stessa?
Ecco il punto. Togliete il regista, il montatore e lo sceneggiatore; cancellate i nomi, o sostituiteli con quelli di qualcun altro. J’accuse resta un’opera magistrale che nobilita chiunque le si accosti: una volta prodotta e distribuita è tenuta insieme dalla sua dignità artistica, libera dalle colpe del suo artefice. È un esercizio di maestria registica impressionante, con scenografie monumentali, una fotografia raffinata e impeccabili ricostruzioni storiche. La trama, un affaire di menzogna, cospirazione e scorno sociale, trova rispondenza in molti dei processi sommari imbastiti e consumati dalla nostra quotidiana infodemia. Di Polanski mostra l’impareggiabile capacità maturata in sessantacinque anni di carriera, non le misere vicende personali.
I César hanno premiato la sua tecnica registica, noi abbiamo premiato il suo film. Nessuno ha premiato il suo lato umano. L’arte è armonia, ma è anche amorale, e non tollera vincoli alle sue manifestazioni; men che meno ai suoi mediatori. Detto questo, ci auguriamo che chi ha sofferto trovi giustizia e che i colpevoli scontino ciò che gli spetta.
Ci sono eccellenti ragioni per detestare l'uomo, ma non si può ignorare il regista. Noi abbiamo scelto di non ignorarlo. Fatevi un favore e guardate il suo film, se necessario fingendo che l’abbia girato qualcun altro. Se sarà il caso di alzarsi e seguire Adéle Haenel fuori dal teatro, lo valuterete voi; ma solo dopo i titoli di coda.
*P.S.: Borges è stato più volte criticato per la sua ambiguità nei confronti delle dittature sudamericane: prima la dubbia vicinanza al peronismo, smentita; poi il plauso alle politiche di Jorge Rafael Videla; in ultimo, il tiepido apprezzamento per l’operato di Augusto Pinochet espresso dopo una cena con il dittatore cileno. Per questi motivi uno dei più grandi autori della storia non ricevette il Nobel per la letteratura. Peccato, peccato davvero.