SorrisoDiverso

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Il cortometraggio è ambientato dentro le quattro pareti di una casa, in un’atmosfera calata nella penombra, turbata soltanto dalla percezione remota dei rumori che provengono dall’esterno. Questo luogo chiuso in cui risuonano esclusivamente le voci dei due protagonisti pare quasi una rappresentazione materiale dell’isolamento dentro cui l’anziano dei due si rifugia da oltre un anno, sempre meno interessato a quello che accade all’esterno.

Incagliato nei ricordi accumulati nel corso della sua vita sino a quel punto, sembra che ormai non abbia più alcuna intenzione di scrivere un nuovo capitolo della sua storia, almeno fino all’arrivo del suo giovanissimo ospite.

È lui a smuovere lo stallo e con la sua insistenza, con la sua fame di futuro, riesce a infondere nell’anziano la forza di riscuotersi.

Il finale che ci riserva questo breve episodio, ritaglio di una vita intera, lega insieme gli elementi della storia con una soluzione inaspettata ma che serba in sé tutte le riflessioni più significative. A permettere di superare la battuta d’arresto, infatti, è proprio il ricordo del passato, lo stesso che in un primo momento pareva essere la fonte dell’immobilità del protagonista. Poi d’un tratto, con un improvviso cambio di rotta, viene trasformato nello stimolo che lo spinge in avanti, verso il futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nello spazio contratto dei suoi otto minuti “Apollo 18” racconta non una, ma due storie.

Il bambino mascherato da astronauta e intento a giocare sulla spiaggia è il narratore della prima: la sua bicicletta trasformata in un razzo da qualche decorazione, si trova ai piedi di una pedana da cui – immagina lui – inizierà un viaggio che copre distanze incalcolabili, tra le stelle.

Nel bel mezzo della sua avventura nello spazio, però, il bambino fa un incontro a cui non è preparato, con quella che, volendo restare coerenti con la sua fantasia, è una creatura aliena.

La seconda storia è proprio la sua, quella del naufrago che raggiunge la stessa spiaggia su cui gioca il bambino, spossato dalla sete e da una traversata estenuante, impolverato e senza una scarpa. Non conoscono la rispettiva lingua, eppure scambiano qualche parola e sebbene abbiano una percezione molto diversa del loro incontro, per un momento sembrano persino arrivare a comprendersi.

Apollo 18 mostra allo spettatore non due storie, ma la natura comune che le lega tutte, che si tratti di un sogno surreale o di un’interminabile odissea: ogni storia, in fondo, è un viaggio e fiorisce sul confine tra due mondi diversi, improvvisamente capaci di connettersi.

 

 

 

 

 

 

 

 

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La pellicola narra la storia vera di Dabo, il protagonista del cortometraggio, uno dei mille volti migranti, senza nome e senza storia che riempiono le cronache e i telegiornali.

Dabo però una storia ce l’ha, una bella storia da raccontare.

Nel suo Paese era un bravo calciatore, ma la partita della sua vita è stata particolarmente dura. Come molti, un giorno all’alba si imbarca su un gommone e parte verso l’Europa affrontando il mare e una notte così buia da non vedere nemmeno le stelle

Una volta sbarcato, Dabo scopre di non essere arrivato in Francia ma in Italia e che lo attendeva un avversario forse più temibile del mare, il cancro. Le cure e l’affetto del dottor Galetta, con il quale nascerà una bellissima amicizia, lo porteranno a trovare il suo posto nel mondo.

Il cortometraggio induce lo spettatore a riflettere su diversi temi. Il primo, molto attuale, riguarda l’immigrazione, l’atrocità dello sfruttamento e della tratta di esseri umani. Ma leggendo più in profondità, il racconto di Dabo è lo stesso di ognuno di noi che si trova a davanti difficoltà che sembrano insormontabili, finché, anche grazie all’affetto e all’amicizia non si trova la forza per vincere anche le partite più dure e importanti.