Nello spazio contratto dei suoi otto minuti “Apollo 18” racconta non una, ma due storie.
Il bambino mascherato da astronauta e intento a giocare sulla spiaggia è il narratore della prima: la sua bicicletta trasformata in un razzo da qualche decorazione, si trova ai piedi di una pedana da cui – immagina lui – inizierà un viaggio che copre distanze incalcolabili, tra le stelle.
Nel bel mezzo della sua avventura nello spazio, però, il bambino fa un incontro a cui non è preparato, con quella che, volendo restare coerenti con la sua fantasia, è una creatura aliena.
La seconda storia è proprio la sua, quella del naufrago che raggiunge la stessa spiaggia su cui gioca il bambino, spossato dalla sete e da una traversata estenuante, impolverato e senza una scarpa. Non conoscono la rispettiva lingua, eppure scambiano qualche parola e sebbene abbiano una percezione molto diversa del loro incontro, per un momento sembrano persino arrivare a comprendersi.
Apollo 18 mostra allo spettatore non due storie, ma la natura comune che le lega tutte, che si tratti di un sogno surreale o di un’interminabile odissea: ogni storia, in fondo, è un viaggio e fiorisce sul confine tra due mondi diversi, improvvisamente capaci di connettersi.