Recensione: Mostro
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La regia di Gianni Quinto e la scrittura dello stesso regista, congiunta a quella di Federica Calderoni, interprete, a sua volta, di uno dei personaggi del corto, portano sulla scena un thriller che in soli otto minuti tesse una trama e la rovescia all’ultimo. Mostro è un cortometraggio che coinvolge lo spettatore e lo interroga perché sia lui a collocare correttamente la definizione a cui afferisce il titolo. Concependo per il cortometraggio un taglio sinistro, volto ad alimentare un clima di crescente tensione nel pubblico, l’autore evoca le sue atmosfere tese grazie a un sottile ‘vedo non vedo’, fino a quando il mistero non si demistifica da sé, improvvisamente lampante come la denuncia del cortometraggio.
Giulia fa jogging nel parco. Si ferma per fare stretching e per rispondere alla telefonata del suo fidanzato e – come è possibile dedurre dal contenuto della conversazione – futuro marito, Marco. L’uomo si allarma nel saperla lì: più di una volta le ha detto di evitare quel posto e anche in questo caso insiste perché se ne allontani il prima possibile. Giulia minimizza e, affettuosamente ma con decisione, afferma che continuerà a fare di testa sua. Chiusa la chiamata, tuttavia, lo scontro con un passante e la vista, mentre è in macchina, di una sagoma alle sue spalle la mettono in allarme. Anche una volta arrivata a casa, Giulia comprende di non essere al sicuro. Qualcuno l’ha seguita e sembra volere qualcosa da lei. Al suo ritorno a casa, Marco troverà qualcosa in cui, di certo, non credeva di imbattersi.
La fotografia curata da Paolo Maggi, fredda ma ricca di contrasti, abbraccia inizialmente splendidi scenari naturali, per poi passare ad ambienti claustrofobici come l’abitacolo dell’auto o l’abitazione della protagonista, per corroborare il senso di turbamento e la successiva concitazione del personaggio. Il ritmo serrato del montaggio, quando il corto arriva al suo culmine, rende la visione avvincente e calamita l’attenzione del pubblico. Degno di nota infine è il lavoro del trucco a cura di Giulia Stronati, convincente, funzionale e necessario per esprimere appieno il senso del corto.
L’efficace interpretazione degli attori sostiene il coinvolgimento dello spettatore fino all’ultimo ma, cosa ancora più significativa, è l’espressione con cui ciascuno di essi abbandona la scena che ne definisce il l ruolo all’interno del racconto: dalla lucidissima fermezza e l’aperta condanna che trapelano dai volti di Federica Calderoni e Simona Rotaru, alla smorfia bieca che si modella sul volto di Geremia Longobardo.