SorrisoDiverso

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Nato da un’idea di Clotilde Grisolia, con la sceneggiatura di Nancy Guarino e diretto da Nicola Surace, responsabile anche delle riprese e del montaggio, Si Va in Scena è un cortometraggio che ha coinvolto la scuola e associazioni culturali e teatrali del comune di Mercato San Severino, tra cui la scuola di teatro “Crescere Insieme Oltre il Teatro” e la Scuola Primaria Plesso Emilio Coppola. L’opera combina il tema dell’accettazione di sé, con le attività ricreative di gruppo, come la danza e il teatro, quali strumenti per creare una sinergia e uno scambio tra l’individuo e il prossimo. Attraverso un monologo iniziale e le successive interazioni, il cortometraggio guida lo spettatore sulla scia del percorso della protagonista, una ragazza omosessuale che teme di non essere accettata dai suoi coetanei e amici e, ancor più, di essere sminuita dalla banalità delle definizioni.

Nancy, la giovane protagonista del corto, si dirige verso la scuola di danza che frequenta con le sue amiche. Arriva in ritardo, la lezione è sul punto di iniziare, ma le ragazze la trattengono prima che vada a prepararsi, per chiederle se verrà alla festa di un amico comune. Pare che ci sarà anche Vincenzo, un ragazzo che ha da tempo mostrato un interesse per Nancy. Lei è titubante e non sembra entusiasta del fatto di avere uno spasimante. In realtà a lei piacciono le ragazze, ma ha paura di confessarlo alle sue coetanee. Il momento della festa arriva, Nancy ci è andata, ma non si sente sé stessa. Ormai per la protagonista sembra essere arrivato il momento di mettere le carte in tavola, smettere di essere ciò che gli altri si aspettano e iniziare a vivere in un modo che la renda davvero felice.

Nel cortometraggio, ‘andare in scena’ rappresenta l’obiettivo di ogni genere di percorso formativo, significa arrivare sul palco – e in senso più ampio affacciarsi agli anni della maturità – come persone pronte a mettere in atto quanto imparato, consapevoli delle proprie doti e dei propri limiti e decise a mettersi alla prova su entrambi i fronti. La vita diventa così un saggio del proprio percorso, idea espressa e richiamata a più riprese all’interno del corto per mezzo di una scrittura e di una trama lineari, che puntano dritte al messaggio.

I giovanissimi attori che impersonano i protagonisti del cortometraggio si applicano con innegabile dedizione alla rappresentazione degli stati d’animo dei loro personaggi, esprimendo l’insicurezza, la difficoltà nel reclamare il diritto alla propria unicità, ma anche la forza con cui, alla fine, superano le proprie paure e affrontano il palcoscenico.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Diretto da Pierfrancesco Campanella, scritto dal regista e da Lorenzo De Luca che ne concepisce anche il soggetto, il cortometraggio tratta delle scomparse di minori, in Italia e nel mondo. L’assenza di una risposta alimenta la ramificazione di un’infinità di ipotesi e genera un’angoscia che non dà pace. Il cortometraggio offre, attraverso le sue inquadrature, una rappresentazione visiva della confusione interiore e dell’isolamento della protagonista che dà sempre più avvisaglie dei sintomi di un profondo disagio psichico e, per certo, di un’ossessione oramai sconfinante nel complottismo. La scrittura dell’opera, tuttavia, riserva anche una serie di colpi di scena che tengono alta l’attenzione dello spettatore e acuiscono il senso di disorientamento provato dal personaggio principale, impersonato nientemeno che dalla straordinaria Maria Grazia Cucinotta.

Mara è la protagonista del cortometraggio, una fotografa che vive da un anno reclusa in casa sua, isolata da vicini, parenti e amici, da quando il suo figlioletto, Roberto, è scomparso. Ossessionata dalle teorie sui circuiti sinistri da cui il bambino potrebbe essere stato inghiottito, Mara si documenta sulle tratte di organi e su organizzazioni sataniche che coinvolgono alte sfere del clero e della politica. Tra i suoi rarissimi contatti con l’esterno c’è il blog su cui scrive e attraverso il quale espone al pubblico del web i risultati delle sue indagini. Il suo compagno, i familiari e la sua vicina tentano a più riprese di stabilire un contatto con lei e superare la porta che separa Mara dal resto del mondo. Lei però respinge tutti quanti e senza mezzi termini li accusa di essere coinvolti nella scomparsa di suo figlio. L’unica persona che riesce ad attraversare la soglia della casa di Mara è la sua psicologa, il solo aiuto che la donna abbia cercato.

La scenografia a cura di Laura Camia coopera con una fotografia diretta da Sacha Rossi e con la regia di Pierfrancesco Campanella, per suggerire, attraverso le immagini di un ambiente disseminato di fotografie e articoli di giornale, l’idea di un castello di carte a cui viene sottratto un elemento portante, con il conseguente crollo di tutto il resto. Lo spettatore osserva la vita di Mara in pezzi sparsi per la sua casa, perlopiù rappresentati proprio dalle fotografie di Roberto: un’immagine riprodotta in molteplici formati ma che serve a risaltare ancora di più l’assenza del bambino.

Maria Grazia Cucinotta, con la sua presenza scenica, veicola con maestria, attraverso le espressioni del viso, i movimenti e col tono di voce, non solo il dramma e la fragilità del suo personaggio, ma anche la sua determinazione. Con la forza di un impulso materno inarrestabile, Mara lotta fino alla fine, senza lasciarsi fermare dal grado di vicinanza e di parentela dei suoi sospettati.

 

 

 

 

 

 

 

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Diretto da Steven Renso e scritto da Alex Faccio, Routine catapulta lo spettatore nelle atmosfere diroccate di un futuro non troppo lontano, postulando la prospettiva distopica di un lockdown protratto da molti anni che ha cambiato il volto del mondo. Mettendo in atto un’analisi di come condizioni di estrema ristrettezza possano deformare la società, abbrutire la comunità e trasformarla in un’entità selvaggia, l’autore porta in scena il racconto della routine nata in conseguenza dei cambiamenti della quotidianità e delle nuove condizioni di esistenza a cui i cittadini sono sottoposti.

I due protagonisti si incontrano di nascosto in un magazzino abbandonato, tenendosi ben lontani dall’occhio vigile di chi esegue le ronde. Non è la prima volta che si vedono così, ma il loro non può certo dirsi un incontro di piacere. Sono lì per effettuare uno scambio: sigarette per dei viveri. L’occasione di questa compravendita diventa il fantasma di un’interazione sociale sulla quale i due protagonisti, loro malgrado, indugiano. Avviene tra loro un confronto su quello che è stato e quello che resta, sullo stile di vita a cui il nuovo ordine delle cose li costringe, al modo in cui arrancano faticosamente per accaparrarsi un giorno dopo l’altro.

Una fotografia curata, diretta da Graziano Guastella, cattura da angolazioni alternative i dettagli di scenari in rovina che insieme compongono, un elemento per volta, il ritratto del futuro concepito dall’autore. Gli spazi larghi e sgombri acuiscono l’idea di una presenza umana rarefatta, di occasioni di contatto tra gli individui sempre più sporadiche, di un tessuto sociale smagliato in cui il suono di un colpo di arma da fuoco in lontananza lascia intuire il destino del proprio vicino.

Quello messo in scena dall’autore è il tentativo insistente dei protagonisti, condotto attraverso il dialogo che rappresenta il nucleo del cortometraggio, di fare un bilancio del presente, di coniugarlo con un passato perduto. A ogni tentativo, tuttavia, i personaggi vedono la soluzione di questo contrasto scivolargli dalle mani. Non hanno più presa su un passato troppo lontano per essere ricordato e tantomeno su un presente che li ha esiliati e su cui non hanno alcun controllo. I due attori protagonisti, David White e Paolo Massaria, con la loro interpretazione disinvolta, con i dialoghi a cui prestano la voce, riescono a comunicare magistralmente il sentimento di disillusione, una visione della vita che è penetrata fino allo scheletro dell’esistenza, spolpata di ogni speranza e di ogni abbellimento. O quasi.