SorrisoDiverso

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Il cortometraggio, di cui Antonio Annunziata è regista oltre che co-autore della sceneggiatura insieme a Francesco Verdi, è un viaggio al di qua e al di là di una frattura evocata fin dalla primissima scena attraverso il quadro commentato dai due protagonisti a una mostra, nell’occasione in cui si incontrano.  Ai lati di questa spaccatura ci sono i due diversi frangenti di una storia d’amore: il momento prima di toccarsi e l’allontanamento – per citare il primissimo dialogo del corto.

Attraverso un montaggio che mescola il passato e il presente, lo spettatore assiste alle vicende alterne di una coppia, Lara e Manuel, dall’occasione in cui si conoscono, alle prime uscite insieme, fino alla proposta di matrimonio. Il passato è una promessa di felicità, ma ora deve fare i conti con un presente che non sa esserne all’altezza. Il non troppo metaforico scrigno dei sentimenti dei due protagonisti è per sempre e irreparabilmente segnato da ferite impossibili da medicare. Ma la riflessione del corto non si limita a questo, perché il vero messaggio sta nel concetto di responsabilità. Un genere di responsabilità che non ha confini netti e di cui, perciò, è sempre più difficile chiedere conto: quella verso il dolore provocato negli altri con i propri gesti e con il proprio egoismo. Infine, è forse la responsabilità verso la propria stessa felicità a essere invocata: chi non ha cura dei propri sentimenti, inevitabilmente, è portatore dello stesso male che, in questo modo, si diffonde di caro in caro, di genitore in figlio.

Sfruttando un fitto sistema di simboli, di richiami e sequenze oniriche, l’autore passa gradualmente dal racconto degli episodi che costellano questa storia d’amore, alla rappresentazione visiva degli stati emotivi dei protagonisti, segnando un tragitto che si perde tra i moti dell’anima.

A sottolineare l’importanza e il peso delle azioni, in questa storia, c’è la scelta di riprendere gli attori tagliando, evitando o velando il loro volto e inquadrandone, invece, le mani – anche in questo caso, una citazione del quadro della prima scena. Non sono le identità a essere importanti, nel caso di A Little Story, perché questa potrebbe essere la ‘piccola storia’ di chiunque. Peso ha, invece, la mano, cioè il gesto, l’atto che si compie e – simultaneamente – ferisce.

 

 

 

 

 

 

 

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ITA - Cortometraggio diretto dal messicano Luis Miguel Vélez Pérez, anche autore della sceneggiatura, A Few Clownish Cents consegna allo spettatore una storia dolorosa di abbandono e di disperazione. L’autore sperimenta espedienti narrativi arditi, sipari di cupa ironia e suggestioni visive che alludono alla china oramai inarrestabile che prende la vita del protagonista. Una prova di narrazione, quella di Luis Miguel Vélez Pérez, che lo vede mettere in campo una sensibilità spiccata e una grande capacità di rappresentare un genere preciso di sofferenza – quello di chi sente di non avere più valore.

‘Sincho il pagliaccio’ è il protagonista del cortometraggio – un toccante Miguel Enrique che, a sorpresa, ricopre un doppio ruolo all’interno del corto. Sincho si esibisce con il suo numero per le strade nel tentativo di racimolare qualche soldo in più. La sua banca lo contatta per avvertirlo che sarà necessario spostare il suo fondo pensionistico al più presto e gli fornisce istruzioni confuse per farlo attraverso un’applicazione dal telefonino. Incapace di risolvere da solo la faccenda, Sincho si ritrova privato dei risparmi di una vita di lavoro. La sua frustrazione e il suo evidente bisogno di aiuto si infrangono contro il muro dell’indifferenza dell’impiegata della banca con cui si interfaccia e alla fine Sincho si vede abbandonato al suo destino. Sfrattato dalla sua casa, viene contattato da un avvocato che si offre di valutare il suo caso.

Nell’intensa sequenza muta accompagnata dal sottofondo musicale, subito dopo che Sincho viene liquidato definitivamente dalla banca, l’amarezza e la disperazione comunicati dall’impressionante mimica facciale dell’attore protagonista oltrepassano lo strato del trucco da clown che, col suo contrasto, rimarca ancora di più l’assurdo della sua situazione. La carica paradossale che trapela da questa e da altre scelte dell’autore, tuttavia, è una presenza che si innesta nel tessuto del racconto con discrezione, senza che ne venga intaccata la fondamentale vena di realismo.

Nel cortometraggio gli sforzi creativi sono tutti al servizio del messaggio. Con un coraggio prezioso, la storia e la sequenza che la chiude, guidano lo sguardo dello spettatore all’indirizzo degli invisibili, persone dimenticate, a cui non resta niente se non coloro che, come l’autore dell’opera, spendono la propria voce per loro.

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ENG - A short film by the Mexican director Luis Miguel Vélez Pérez, also the author of the screenplay, A Few Clownish Cents delivers to the public a painful story of abandonment and despair. The author experiments with daring narrative expedients, sketches of dark irony and visual suggestions that allude to the unstoppable drift of the protagonist’s life. Luis Miguel Vélez Pérez puts in play a strong sensitivity and a great ability to represent that kind of suffering that affects those who feel they no longer have value.

'Sincho the clown' is the main character of the short film - a touching Miguel Enrique who, surprisingly, plays a double role in the short. Sincho performs with his number on the streets to raise some extra cash. His bank warns him that his pension fund will need to be moved as soon as possible and gives him confusing instructions to do so through an app on his mobile. Unable to solve this issue on his own, Sincho comes to be deprived of the savings of a life of work. His frustration and his evident need for help crash against the wall of indifference of the bank employee and, at the end, Sincho is abandoned to his fate. Evicted from his home, he is eventually contacted by a lawyer who offers to evaluate his case.

Immediately after Sincho is definitively liquidated by the bank, in the intense sequence without dialogues, accompanied by the instrumental soundtrack, the bitterness and desperation communicated by the protagonist’s striking expressions emerge beyond the layer of clown make-up which, with its contrast, underlines even more the absurdity of the situation. The paradoxical charge that transpires from this and other choices of the author, however, is a detail grafted into the story with discretion, without affecting its fundamental vein of realism.

In the short film, the creative efforts are all at the service of the message. With courage, the story and the sequence that ends it, guide the public's gaze to the invisible, forgotten people, who have nothing left but those who, like the author of the work, spend their own voice for them.

 

 

 

 

 

 

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Una regia e una scrittura firmate da Iole Masucci per 31 settimane, un racconto a più voci portato sullo schermo dalla solida interpretazione di Annalisa Direttore, Andrea De Bruyn e Carmine Borrino. Tre linee narrative indipendenti, tre punti di vista che raccontano la medesima situazione, sviluppata nel periodo di tempo citato dal titolo del corto. Ciascuna storia fa luce su una diversa angolazione della vicenda, ma nessuna è in grado, da sola, di completare il quadro. Questo avviene soltanto al momento della loro sovrapposizione, attraverso un contrappunto condotto sapientemente.

Una donna scende dall’auto con il suo trolley e si avvia verso il cancello di casa. Qualcuno la rincorre e quando lei – ma non lo spettatore – vede di chi si tratta, il suo volto viene attraversato da dolore e angoscia insieme. Ma bisogna fare un passo indietro, a trentuno settimane prima. Giulia è la commessa di una libreria frequentata da Paolo, che la osserva in disparte ma con insistenza e da Flavio, che invece riesce a farsi avanti e conquistarla. Inizia tra loro una relazione che porta, poi, a una convivenza. La loro sintonia sembra perfetta. Qualcosa, tuttavia, interviene nella felicità di Giulia, insidiata continuamente da telefonate mute e regali recapitati senza indicazione del mittente. Paolo le chiede di parlare, insiste nell’offrirle il suo aiuto, ma Giulia lo allontana. Oltre a questo, anche sul fronte della relazione con Flavio si affacciano nubi di tempesta. Giulia non riesce più a disincagliarsi dal pantano della scomoda vicinanza di figure che, da alleate, assumono sempre più le sembianze di oppressori.

Iole Masucci riesce a ideare una formula diretta, mai banale, per affrontare un tema oggi molto discusso: l’abuso spacciato per amore. Lo fa elaborando una trama appesa al filo del dubbio, mediante l’incastro delle esperienze di personaggi il cui ruolo nella storia è inizialmente il mistero che anima un tono narrativo sconfinante nel genere thriller.

Una nota di particolare merito va alla scena finale, forte di una scrittura magistrale ma anche delle performance degli attori, capaci di suggerire le dense implicazioni che passano per uno scambio di sguardi. Una maschera di umanità quasi riesce a far dimenticare allo spettatore che dietro si cela il carnefice e ancora una volta questa illusione riesce a strappare alla vittima l’ultimo, fatale lampo di amore e di indulgenza.