La voce di Luca Grimaldi
Entrare nelle immagini spigolose di una narrativa in nero girata come un thriller su fondo blu è funzionale alla regia per far percepire allo spettatore un senso di malessere pervasivo e disturbante. Il blu possiede aspetti d’ombra importanti che, nel corto di Luca Grimaldi, descrivono un sentimento inquietante e delimitano lo spazio di un legame dove le mani, evidenziate in momenti diversi del film, sembrano essere le protagoniste assolute della relazione e in tal modo si caricano di significati. Un dettaglio che il regista illumina attraverso chiaroscuri, con efficaci soluzioni fotografiche e montaggio. Una relazione disfunzionale dove i personaggi sono scorticati dalla loro stessa sofferenza, come ombre indissociabili dal loro corpo, eppure surreali. Ricordi scomodi, simbolismi, memorie, in quel blu che evoca la figura materna del protagonista maschile, di cui la ragazza sembra essere la presenza reincarnata. Il regista sceglie di usare il monocolore per raccontare i vissuti dei protagonisti, connotando la narrazione di una straordinaria potenza evocativa. Nel cambio di stanza, il bagno di colore giallo, rimanda alla follia, all’insicurezza e fa assumere alle sequenze un tono inquietante, presagio di sventura. Nonostante i colori irreali e la scelta registica, assolutamente condivisibile, di non mostrare il colore del sangue, le scene sono connotate da un grande realismo percettivo. Solo nelle riprese esterne il regista utilizza tutti i colori; interno ed esterno divengono metafora di interiorità ed esteriorità attraverso la temporalità degli accadimenti. Con pochi elementi visivi e sonori il regista ci racconta infatti un incontro connotato di tenerezza per poi approdare ad un presente che sa di incubo. Meritevole di attenzione è anche l’uso della musica che conferisce espressività alle immagini senza alterarne il senso. Il contenuto emotivo dei suoni assume infatti diversa intensità in base ai diversi momenti e il campo visivo si fonde con quello sonoro. Le note cambiano il ritmo e si fanno ambiente, alternandosi al respiro del protagonista maschile, mentre la ragazza ha solo voce ma manca di respiro. Una ottima soluzione di regia per accompagnarci alle scene finali che sono come un pugno nello stomaco e rivelano la vera natura del rapporto.
The Quarantine Path di Davide Lomma
Una favola ecologica e una rivoluzione che evidenzia un ecosistema virtuoso catturato con una fotocamera durante il periodo del lockdown. In un mondo frenetico e dominato dalla corsa, sono i momenti come questi che consentono di
riscoprire i veri valori della vita e permettono una riflessione a tutto tondo sulla possibilità di tutelare l’ambiente in cui viviamo, sull’inquinamento, sugli animali a rischio di estinzione che, proprio in questo periodo, sono tornati a popolare habitat considerati a rischio. Lontano da finti umanismi e dalla presunzione di insegnare qualcosa, il regista ci racconta una esperienza individuale e positiva in un momento complesso come quello che abbiamo attraversato. Un modo per affrontare il periodo di quarantena del Covid19 in maniera costruttiva, fra lockdown e zone rosse. Come la maggior parte della popolazione, una famiglia si trova a vivere molte ore in casa senza potersi allontanare oltre i 200 metri, ma è proprio in quel terreno, a pochi metri di distanza metri da casa, che il protagonista scoprirà nuovi mondi, facendo scoccare la scintilla che risveglia in lui e nei bambini la curiosità. Inizia a pulire il terreno e piazza una telecamera.
La trama si concentra sulla scoperta di un mondo sconosciuto che riannoda un legame spezzato, abbattendo la linea di confine che separa le specie animali dall’essere umano e incastona la vita a colori dei bambini con le storie di animali filmate in bianco e nero, restituendo allo spettatore un progetto globale della natura. Gli animali a quattro zampe diventano parte della vita della famiglia che abita in mezzo a corridoi ecologici in maniera reciprocamente autonoma. Davide Lomma ci offre straordinari ritratti di organismi viventi che coesistono sulla terra insieme all’uomo e una sensazione unica di amore e unione con la natura. “Ho cercato di ritrovare un legame spezzato da generazioni” dice il protagonista, in una delle scene del film della quale in maniera semplice e diretta propone una riflessione filosofica, teologica e scientifica. Lo fa uscendo da una posizione antropocentrica e ottusa, ma facendoci comprendere che
l’evoluzione non ha un piano e l’essere umano non è migliore delle altre specie. La visione panoramica dall’alto con una inquadratura larga che evidenzia le mappe e i percorsi delle specie animali fotografate e filmate fra i corridoi ecologici che si popolano di notte, enfatizza la coesistenza di un tutto che vale più della somma delle singole parti. La scelta del regista di proporre la storia di un padre con i figli, senza mai mostrarci una madre, ma evidenziando la madre terra, appare originale e azzeccata e apre a riflessioni tutt’altro che banali. “Ci sono tempeste che vedi arrivare da lontano ma quando arrivano portano quell’acqua che la terra stava aspettando da tanto tempo” dice ancora il protagonista, facendoci comprendere come non si debba sempre maledire un evento che ci coglie di sorpresa. Spesso dietro a quell’evento scopriamo il miracolo della natura che si risveglia e che invita a riscoprire gli spazi di un tempo, la terra, la condivisione, i ritmi naturali del vivere e il rispetto per tutto ciò che ci circonda.
Verdiana di Elena Beatrice e Daniele Lince
Una storia di sentimenti che invoca anche il rispetto per l’ambiente, dove Angela Finocchiaro, perfettamente nella parte, assume le connotazioni di un essere etereo: fata o stravagante signora, che ha il compito di salvare un rapporto di coppia. Una relazione connotata da inadeguatezza comunicativa dove i protagonisti sembrano non sentire ciò che dice l’altro e non riuscire a farsi comprendere, come dentro una bolla creativa all’interno della quale è racchiuso solo uno dei due membri della coppia, evocata dalla compagna di Michele, il protagonista. Il “non sento, non parlo” diviene una asfittica realtà e i due compagni, dopo una serie di visite specialistiche e controlli, giungono da una Maestra Zen vestita di bianco con un volto senza trucco che, concentrandosi sul respiro, accoglie serenamente i due e comprende ciò di cui hanno bisogno: una piantina. Una lezione che, in contrasto con le interiorità abbandonate in mezzo ad una
epoca di sollecitazioni sfrenate, indica loro un percorso che gli permetta di riconnettersi con l’ambiente, rispettarlo e al tempo stesso, rispettare loro stessi. Non c’è superiorità di una cosa verso l’altra, anzi, abbiamo bisogno di entrambe e abbiamo bisogno di mantenerle entrambe in vita. Si trasformano i sentimenti e si trasformano i suoni e i colori utilizzati dai cineasti all’interno della struttura narrativa che ci accompagna a scoprire un semplice/grande nome: Natura. Le piante, esattamente come noi, attraverso le radici, hanno proprietà sensoriali e percepiscono informazioni sulla qualità dell’ambiente in cui viviamo. Elena Beatrice e Daniele Lince coppia nel lavoro e nella vita raccontano con delicatezza e originalità, senza scadere negli stereotipi, una deliziosa storia dall’incipit accattivante che permette a Luisa e Michele di ritrovare la complicità e, con essa, la voce e l’udito. I due, prima tristi, nervosi, inquieti e infelici, dopo la terapia Zen, scoprono che le piccole cose fanno parte dell’ecologia psichica e che i semi della serenità attecchiscono soltanto su un terreno concimato con affetto, altruismo, generosità, gentilezza.