SorrisoDiverso

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Di Daniel Aita
Fermiamoci a pensare: “la violenza nei videogiochi è davvero dannosa per gli adolescenti”?
Molto spesso svariati adulti tendono ad osservare le nuove tecnologie con uno sguardo di diffidenza e imputano alle ore che i propri figli passano davanti a uno schermo la natura del loro essere sgarbati o svogliati. Qualsiasi comportamento negativo del ragazzo viene da loro automaticamente collegato al videogame, ma è davvero così? Secondo alcuni studi effettuati negli ultimi anni è emerso che i videogiochi rendono incapaci di sostenere rapporti sociali, intellettualmente pigri, aggressivi e molto altro. Certamente un’esagerazione può portare danni al proprio corpo, ma questo solo in casi estremi che variano da persona a persona. Per esempio, io stesso passo in media 4 ore al giorno davanti al computer, eppure non mi reputo e non vengo reputato una persona asociale o instabile come vorrebbero questi presunti “studi”. Basta, infatti, essere in grado di gestire e suddividere nell’arco della giornata il tempo passato davanti allo schermo per rendere quest’attività considerata così dannosa nient’altro che un’esperienza piacevole, e a volte anche anche costruttiva. Tuttavia vorrei ricordare che, una volta, i tipi di videogiochi che l’uomo era in grado di creare erano piuttosto limitati. Le nuove tecnologie permettono, oggi, non solo di ricreare diverse categorie di gioco, ma anche di sperimentare ambienti e situazioni che raggiungono i più alti livelli di fantasia.
Secondo me i videogiochi al giorno d’oggi, grazie a questo sviluppo, sono in grado di aiutare le capacità celebrali dell’essere umano. A supportare questa mia affermazione vi sono diversi studi che affermano che questi aiutino a sviluppare capacità di problem solving, ad aumentare la creatività e a favorire il rilassamento. Infatti molti giochi possono richiedere un lungo ragionamento che può durare anche giorni per superare un singolo ostacolo, quando invece la soluzione risulta semplicissima: non bisogna mai dare nulla per scontato. Chiaramente i più piccoli possono usare questi ausili esterni per arricchire la loro già grande creatività, riuscendo ad immaginare cose che non avrebbero mai immaginato senza una piccola spinta. E infine un qualche videogioco veloce e semplice da usare può aiutare una persona a rilassarsi, a effettuare una piccola “fuga” temporanea dalla realtà del lavoro o della scuola, dimenticando temporaneamente i propri problemi e concentrandosi solo sul gioco.
Un’altra cosa che viene spesso criticata nei videogiochi è l’eccessiva violenza che sembra crescere con l’uscita di nuovi titoli. Secondo alcuni studi, questa eccessiva violenza videoludica porta anche alla violenza nella vita reale. Questo è un argomento che va trattato con le pinze, infatti non è possibile generalizzare e affermare che sia effettivamente così per tutti: è una questione molto soggettiva. L’impatto che essi hanno sul comportamento umano dipende molto da come il giocatore stesso percepisce il gioco, se come un semplice passatempo, come detto prima, o se come altro. Infatti, a differenza di ciò che fanno molti, non bisogna dare la colpa ai videogiochi per la violenza di molti adolescenti, ma agli adolescenti stessi. Il gioco non è altro che uno svago che ci permette di fare cose che non potremmo o dovremmo fare mai al di fuori di esso, cose che succedono in quel mondo e lì devono rimanere; sta al giocatore farsi un esame di coscienza prima di giocare a un titolo violento e chiedersi se lui si farebbe influenzare negativamente da quel titolo e in caso non giocarci.

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Di Alessia Angelini
Questo è il motto che guida da un po’di anni la “battaglia” che il karate sta portando avanti, alla conquista di un posto tra le discipline olimpiche.
Il karate nasce come un’arte marziale a Okinawa e si diffonde nel resto del Giappone negli anni 20, arrivando in occidente e in Italia negli anni 60. È proprio in occidente che diventa uno sport: così facendo l’approccio difensivo passa in secondo piano a favore di quello agonistico. A oggi, le competizioni che si effettuano sono di kata (un combattimento con avversari immaginari) e di kumitè (un combattimento tra due avversari).
Da moltissimi anni il karate cerca di entrare a far parte degli sporti olimpici, ma finora i risultati sono stati deludenti. A riguardo, purtroppo, il boccone più amaro da ingoiare sta nel fatto che sono sempre pochi voti a stabilire la sconfitta. Per esempio: nel 2005 il karate è arrivato al ballottaggio grazie al 66% di voti raccolti, che però non sono stati riconfermati nella seconda sessione di voto. Lo stesso epilogo si è avuto quando, dopo le olimpiadi di Londra 2012, questo sport si è trovato nella short list che avrebbe potuto permettergli di essere inserito nelle olimpiadi di Rio 2016. Alla fine l’onore è però toccato al rugby a 7 e al golf.
I motivi delle diverse bocciature sono vari e incerti, ma una delle cause principali potrebbe essere l’elevato numero di sport da combattimento all’interno del programma olimpico. Si suppone, infatti, che per permettere l’inserimento del karate debba essere eliminato almeno un altro sport. La lotta greco romana certamente non rischierà di sparire, in quanto è uno degli sport olimpici più antichi, mentre gli altri sono tutti stati introdotti da poco tempo, perciò non possono essere esclusi.
I sostenitori del karate, nonostante tutto, non demordono. Un nuovo tentativo sarà quello di cercare di aggiudicarsi un posto nelle olimpiadi di Tokyo 2020. Grazie ad una nuova regola del CIO (Comité International Olympique) il Paese ospitante può ora proporre 5 nuove discipline. Le prescelte dal Giappone sono: baseball-softball, arrampicata, skateboard e infine il karate. Il comitato internazionale olimpico si riunirà ad agosto del 2016 per decidere se accogliere o meno le proposte giapponesi. Nel frattempo, noi speriamo che tutto vada per il meglio e non ci venga più detto “sarà per la prossima volta”. D’altra parte, come recita un celebre motto: “un karateka non perde mai, a volte vince, a volte impara”. Il karate ha imparato abbastanza, forse è proprio arrivato il momento di vincere.

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Di Eva Mazzone
Chiunque faccia acquisti al supermercato e usi controllare le etichette troverà difficile non imbattersi nella dicitura “olio di palma”.
Le statistiche parlano chiaro: l’olio di palma è l’olio vegetale più usato al mondo. Gli importatori primari di questo prodotto sono Cina, Pakistan, Unione Europea, India e Stati Uniti, che lo acquistano da grosse multinazionali. È utilizzato in larga scala nei settori alimentare, cosmetico, farmaceutico ed energetico. In Italia si registrano importazioni pari a 1,6 milioni di tonnellate all’anno, il cui 21? è impiegato nell’industria alimentare.
Ma da dove proviene l’olio di palma?
La palma africana, nome scientifico elaeis guineensis, è originaria di una vasta area tra il Gambia e l’Angola. Produce grappoli sferici contenenti ognuno 2000 frutti, il 40? dei quali è composto da polpa che può essere utilizzata per produrre olio. In un primo momento essa viene spremuta, realizzando un olio rosso, ricco di vitamine e betacarotene. In seguito, per assecondare le necessità dell’utilizzo industriale, il prodotto viene raffinato fino a creare un olio giallo, privo di nutrienti, insapore e inodore.
La scoperta delle proprietà di quest’olio ha scatenato, a partire dagli anni ’90, una vera e propria rivoluzione nel campo dell’industria alimentare e non solo. Visto che la palma richiede un clima tropicale (24o-27o), oggi le coltivazioni si estendono in gran parte della Malesia, Indonesia e in alcune aree della foresta amazzonica.
L’olio si produce da non più di vent’anni, prima non si usava: cos’è che lo rende così diffuso? È più buono? No, l’olio è insapore. Vi costa meno? No, anzi forse è il contrario. La verità e che il suo utilizzo garantisce alle multinazionali enormi profitti a costo zero a scapito di ambiente, salute e sviluppo.
Analizziamo le caratteristiche della compravendita di quest’olio. Innanzitutto, i costi sono bassissimi. Le coltivazioni infatti si estendono su territori di sovranità indigena, spesso coperti di foreste. Un’arma a doppio taglio: non solo si frena lo sviluppo economico delle popolazioni locali, negando contratti oppure pagando pochissimo e monopolizzando il territorio rurale, ma si deforestano aree estesissime, danneggiando fortemente l’habitat naturale. È tristemente famosa la condizione degli oranghi del Borneo, l’unica riserva naturale che garantisce loro l’habitat. Privati dei loro alberi, gli oranghi devono scegliere tra perire e vivere sulle instabili, sterili palme. E quando ne mangiano i frutti, spinti dalla fame, la morte arriva tramite il fucile di un coltivatore.
Nonostante i costi bassi, la palma garantisce elevate rese produttive, il ché è da una parte fonte di enorme profitto, ma a lungo termine rivela un effetto devastante. Le palme, infatti, fruttificano per tre anni, dopodiché si deve rinnovare la piantagione, radendola al suolo tramite incendi, che progressivamente portano alla laterizzazione (sterilità del suolo), accresciuta anche dall’utilizzo di diserbanti e agrochimica. La deforestazione sarà irreversibile.
Un altro pregio fondamentale dell’olio di palma è la sua incredibile versatilità. Può essere usato nella realizzazione di prodotti che vanno da cosmetici a sottoli, da saponi a merendine. Ma questa sua versatilità è un freno allo sviluppo. L’olio di palma ha schiacciato la concorrenza, guadagnandosi la completa supremazia sull’economia mondiale e impedendo quindi la crescita di piccole e medie aziende. Non solo: come tutte le monocolture intensive, ha effetti devastanti sull’economia del paese esportatore, che viene sfruttato al massimo dalle multinazionali.
Ma ora arriviamo a ciò che forse più interessa la maggioranza di tutti noi. Quali sono gli effetti del consumo di quest’olio sulla salute?
L’olio di palma presenta le stesse caratteristiche del burro: è pieno di acidi grassi saturi. 100 grammi di olio di palma ne contengono infatti ben 47 grammi, mentre l’olio di oliva, ad esempio, solo 16. Come il burro, l’olio non fa male di per sé, ma è totalmente devastante per il corpo quando se ne consuma più del dovuto. Il problema è proprio questo: l’olio di palma è diffusissimo, si trova ovunque. Spesso è camuffato, dietro la scritta “olio vegetale” (resa illegale il 4 dicembre 2014 sotto una direttiva europea che obbliga le aziende a segnalare l’eventuale presenza del prodotto sulle etichette) – spia del fatto che è un prodotto nocivo, che le industrie cercano di nascondere. Lo consumiamo in quantità esorbitanti, che arrivano secondo alcune stime a 30-40 grammi al giorno. Vi immaginate di mangiare 40 grammi di burro ogni giorno? Questo causa l’accumulo di un unico grasso, fonte di svariate malattie capaci di danneggiare cuore e circolazione. Chi è più a rischio? I bambini, i principali consumatori di dolcetti e merendine preconfezionate. L’Organizzazione Mondiale della Sanità consiglia di consumare solo il 10 ? di quello che già si assume ogni giorno per evitare effetti negativi sull’organismo.
Ciò che si vede in televisione o su internet – come troppo spesso succede – è soggetto alla manipolazione delle aziende interessate. La propaganda delle multinazionali è terrificante: spot pubblicitari, siti internet, programmi televisivi vengono utilizzati per indirizzare l’opinione pubblica a favore dell’olio di palma. Gli studi dei nutrizionisti sono spesso commissionati dai venditori. In Italia l’AIDEPI (Associazione Industrie del Dolce e della Pasta italiane) ha investito oltre 500’000 euro nella campagna pubblicitaria pro olio di palma.
Ma cosa possiamo fare noi per salvaguardare la salute nostra e del mondo?
La risposta è spesso quella del boicottaggio passivo, ovvero il non-acquisto di prodotti contenenti olio di palma. Le alternative in effetti ci sono, anche perché molte industrie alimentari si sono attivate per togliere l’olio da alcuni loro prodotti. Esistono anche coltivazioni di olio di palma sostenibile, che garantiscono olio con origini tracciabili, prodotto nel rispetto degli ecosistemi ad alto valore di conservazione, non proveniente dalla conversione in piantagioni di aree sottoposte ad incendi volontari e che protegge i diritti dei lavoratori, promuovendo lo sviluppo dei piccoli produttori indipendenti.