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Recensione: Tempi Morti

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Tempi Morti è diretto da Damiano Monaco e Lucio Lionello ed è scritto da ben quattro autori: Gabriele Monaco, Damiano Monaco, Lucio Lionello e Simone Gigiaro. Opera coinvolgente, connotata da un’ironia da commedia nera, il cortometraggio è quasi interamente ambientato all’interno di un cimitero e l’idea della sepoltura – in più di un senso – è presentissima per tutta la durata dell’opera. Attraverso l’accostamento di due linee temporali separate da più di vent’anni, Tempi Morti parla del dialogo tra il passato e il presente e soprattutto dei suoi testimoni. Gli autori dell’opera mettono in campo una capacità di rapportare con un equilibrio l’umorismo ad argomenti seri e importanti e portano sullo schermo una storia vera, corredata da un’incredibile testimonianza finale.

Due donne sono dirette al cimitero per far visita alla tomba del marito di una delle due. Mentre la vedova cambia i fiori, chiede all’amica di prenderle dell’acqua. Nel tragitto la donna fa una scoperta sconvolgente. C’è una seconda tomba dedicata al marito della vedova. Il nome è lo stesso, la data di nascita anche, ma una sepoltura risale al 1951, mentre l’altra al 1979. Anche la foto corrisponde. Sembra proprio che Michele Casarza sia stato seppellito due volte. Mentre la vedova cerca di liquidare la questione, la sua amica prende a cuore il mistero, interpella due becchini che, a loro volta, si rivolgono al dotto professore, l’unico che forse è in grado di risalire alla verità. In effetti qualcosa riesce a chiarirla, il professore. Michele Casarza era stato un Internato Militare Italiano, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tutti i personaggi, dalla coppia di becchini, interpretati da Jurij Ferrini e Andrea Nicolini, alla vedova e la sua amica, impersonate da Anna Bonasso e Paola D’Acquila, per arrivare al professore, Roberto Accornero, vengono perfettamente caratterizzati dagli attori e danno vita a numerose scene esilaranti, scaturite spesso dai loro fondamentali contrasti. Di taglio più drammatico, l’interpretazione resa da Lorenzo Demaria, nel ruolo di Michele, Michela Di Martino, nel ruolo di sua moglie da giovane e da Gabriele Bocchino che impersona il becchino degli anni Cinquanta.

Un momento importante e denso di significati all’interno del corto è quello del dialogo tra la vedova e il professore, quando la donna gli restituisce il fazzoletto che lui le ha consegnato. Il suo gesto rappresenta un passaggio del testimone: la storia si riconverte in vita cedendo il peso del significato degli eventi ai posteri, assegnando loro il compito di ricordare. In questo modo gli attori di quello che è stato possono concedersi di superare il passato, di ritornare ripristinati, o quasi, alla loro umanità, ma al tempo stesso, la precarietà delle loro storie costituisce un monito, lì dove sempre più raramente queste sopravvivono alla sepoltura dei loro protagonisti.