SorrisoDiverso

Gli estremi rimedi, regia di Francesco Mazza, critica a cura di Armando Lostaglio

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È un piccolo episodio dalle grandi capacità di coinvolgimento: storia di lockdown, termine ormai desueto, asfaltato dall’ulteriore drammaticità dell’invasione russa in Ucraina.

È un pesciolino in vasca a fare da specchio riflesso della depressione da chiusura forzata di una coppia in un elegante appartamento. Un pesce di nome Attilio, (quasi come “il pesce di nome Wanda”, passato a Venezia nel lontano 1988) vive dunque la sua quarantena come i suoi “padroni”, senza fissa meta. La stessa che ha obbligato milioni di persone a vivere in una bolla, in un seminterrato dell’anima, e dunque a fare i conti con se stessi. Siamo alle solite: la solitudine che incombe, la scarsa comunicabilità, e il dilemma di sempre: da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo? Attilio sa di essere un pesciolino e decide di farla finita, facendosi inghiottire dal risucchio della vaschetta. L’estremo rimedio diventa fatalmente l’estrema visione della vita, sul filo sottile fra inizio e fine. Il pesciolino sa di essere una creatura vivente con pochi sbocchi vitali, mentre gli abitatori dell’appartamento sono altro da lui, sì, ma quanto?